Accedi

Quando abbuffarsi diventa il sintomo di un disturbo alimentare?

fame emotiva giorgio serafini prosperi Aug 01, 2020
Breaters_Quando abbuffarsi diventa il sintomo di un disturbo alimentare?

Ti capita di abbuffarti? Di mangiare senza controllo grandi quantità di cibo? Di farlo di nascosto, magari nel week end, al riparo dagli occhi indiscreti, o quando il “rumore della vita” si attenua un po’?

Potresti avere un disturbo da alimentazione incontrollata, meglio noto come Binge Eating Disorder (BED).

Definiamo meglio il disturbo da alimentazione incontrollata

Le caratteristiche principali del disturbo da alimentazione incontrollata sono appunto le abbuffate ricorrenti, che, dal punto di vista medico, per essere definite un “disturbo”, devono manifestarsi almeno una volta a settimana per un minimo di tre mesi.   

Chi soffre di questo disturbo, di solito non usa in modo regolare comportamenti di compensazione come nella bulimia nervosa (utilizzo di lassativi o diuretici, induzione del vomito). Su questo argomento, leggi anche "Chi è il mangiatore compulsivo: come riconoscerlo?".

Tra le altre caratteristiche del BED c’è inoltre la difficoltà nello stabilire dei confini sani nella relazione col cibo: si ha la tendenza a mangiare in eccesso anche al di fuori delle abbuffate e si associa spesso a un generale “disordine” nella assunzione del cibo, il che spiega anche perché nella maggior parte dei casi questo disturbo produca una condizione di sovrappeso o di obesità.

Anche nel BED, come negli altri disturbi dell’alimentazione, il soggetto tende ad attribuire un’eccessiva importanza al peso e alla propria immagine corporea, anche se in alcuni casi è presente solo la ricerca del controllo alimentare mentre l’insoddisfazione e il disagio nella relazione col corpo sembra essere minore di quella osservata, ancora una volta, nella bulimia nervosa.

Andiamo oltre le definizioni

Fin qui i freddi dati scientifici. Nei quali, come individui, possiamo riconoscerci  o meno. In realtà, oltre alle definizioni e alle diagnosi, ci sono le persone. 

Esseri umani che spesso non hanno strumenti a disposizione per identificare una sofferenza strisciante, come quella generata da una relazione disfunzionale col cibo, e che si ritrovano intrappolati in un dolore senza nome che è comunque causa di disagio, vergogna e sensi di colpa.

 

Come posso sapere se soffro di binge eating?

Ecco 5 semplici indizi per scoprire se potresti soffrire di un disturbo da alimentazione incontrollata.

Se rispondi di sì ad una o più di queste domande, forse finalmente potrai contestualizzare qualcosa che ti fa soffrire, magari da molto tempo, e che hai sempre attribuito a una tua incapacità o, peggio ancora, di cui ti sei fatta/o una colpa.

  • Ti capita spesso di non riuscire a controllarti, soprattutto quando mangi certe categorie di cibi?
  • Le abbuffate sono seguite da sensazione di inadeguatezza, vergogna o sensi di colpa?
  • Mangi di nascosto o in momenti della giornata o della settimana in cui sei sola/o?
  • Dai “appuntamento” al cibo come momento di conforto, di evasione, di pacificazione dello stress? Il pensiero del cibo riempie le tue giornate?
  • Il senso di disagio per la tua immagine corporea occupa molto spazio nella tua mente?

Non prendere queste domande come oro colato, tieni presente che le diagnosi dei disturbi alimentari sono una cosa seria e devono essere fatte da medici e da specialisti.

Tieni presente, però, che molto spesso sottovalutiamo certi sintomi che riguardano la nostra  relazione col cibo. È un fatto culturale, soprattutto. 

Si tende a pensare che sia qualcosa di cui occuparsi attraverso il “fai da te” e che al massimo si potrà ricorrere a quella forza di volontà che in noi sembra sempre insufficiente. 

È un inganno!

 

La forza di volontà non c’entra niente

Il disturbo da alimentazione incontrollata, come qualsiasi altra modalità di assunzione emotiva del cibo, non ha niente a che vedere con la forza di volontà.

Non riesci a smettere perché si attiva un allarme emotivo

Se qualcuno ti dice che puoi  
controllare il cibo grazie alla forza di volontà, semplicemente rispettando una dieta, non crederci. Sai perché? Perché l’uso emotivo del cibo ha origine in un’area del cervello che non ha niente a che vedere con quella della volontà.

Mangiare emotivamente è una risposta che la mente ha imparato a dare ad un allarme interno percepito come non sostenibile.

Devi inoltre sapere che certi cibi come gli zuccheri, ma non solo, hanno un effetto sedativo/calmante e innescano poi un ciclo gratificazione/pacificazione a causa del repentino innalzamento e ri-abbassamento della curva glicemica.

Un’azione combinata

Si tratta di un’azione combinata particolarmente efficace. Innanzi tutto  il cibo ci dà l’illusione di
“riparare” il disagio emotivo con un effetto premio/gratificazione immediato, proponendosi come un piacere, appunto, riparatorio; in secondo luogo l’assunzione di questi cibi ha effettivamente un’azione pacificante sul sistema corpo/mente ed è in virtù di questo doppio effetto che si instaura un ciclo non disinnescabile con mezzi cognitivi.

 

Da dove viene il segnale di allarme?

Il “centro di comando” degli istinti relativi alla paura e alla reattività risiede infatti nell’area del cervello antico detta amigdala, dove si produce appunto la risposta agli stimoli percepiti come “pericolosi”, siano essi dovuti a cause esterne o interne.

Niente a che vedere con l’area della neo-corteccia dove nascono invece le attività cognitive e ad altre zone ancora che contribuiscono ad attivare ciò che noi chiamiamo “determinazione” o “volontà”.

Due lingue diverse

Fame emotiva e volontà parlano perciò due “lingue” diverse, ecco perché quando cerchiamo di dare risposte “razionali” (come per esempio cercare di attenerci a una dieta) ad impulsi che non hanno a  che vedere né con la logica né con la sfera razionale, siamo destinati a fallire.

Un’altra via

I più recenti studi di neuro-scienze hanno dimostrato che esiste un’altra via per dialogare con i comportamenti alimentari collegati al disagio, all’ansia e allo stress.

La pratica costante della meditazione di consapevolezza può incidere alla radice sui comportamenti compulsivi, attenuando l’impatto della risposta automatica allo stress percepito.

Si agisce a monte

In poche parole si agisce a monte del problema: non si cerca più quindi di controllare l’impulso ma ci si prende cura della risposta reattiva che si è imparato a tradurre in necessità di cibo calmante.

In altre parole, se non ci occupiamo di integrare l’emozione che dà origine alla richiesta di cibo, appunto, emotivo, non avremo “armi” per dare una risposta diversa da quella automatica, alla quale siamo dolorosamente abituati, alla richiesta stessa. 

Gireremo a vuoto e non faremo altro che ripetere, con un andamento ciclico, circolare, l’azione compulsiva che produce in noi disagio e sofferenza.

Viceversa, la pratica meditativa ci mette in contatto con la mente profonda, consentendoci di “tradurre” gli stimoli ricevuti dall’amigdala, non più percepiti come pericoli imminenti, in azioni di altra natura, consentendoci uno spazio ed un raggio d’azione più ampio tra impulso risposta.